giovedì 25 novembre 2010

25 novembre - Giornata Mondiale per l'Eliminazione della Violenza sulle Donne


Mai più violenza sulle donne
La violenza sulle donne è uno scandalo per i diritti umani. In molte società questo problema si scontra con la mancanza di interesse, il silenzio e l'apatia dei governi.

La campagna Mai più violenza sulle donne, lanciata nel maggio 2004, affronta le diverse violazioni dei diritti delle donne: dalla violenza domestica alla tratta, dagli stupri durante i conflitti alle mutilazioni genitali.

Sia in tempo di pace che in tempo di guerra, le donne subiscono atrocità semplicemente per il fatto di essere donne. A milioni vengono picchiate, aggredite, stuprate, mutilate, assassinate, in qualche modo private del diritto all'esistenza stessa.

AI chiede ai governi, alle organizzazioni e ai privati cittadini di impegnarsi pubblicamente per rendere i diritti umani una realtà per tutte le donne.

Secondo il diritto internazionale dei diritti umani, tutti i governi hanno la responsabilità di prevenire, indagare e punire gli atti di violenza sulle donne in qualsiasi luogo si verifichino: tra le mura domestiche, sul posto di lavoro, nella comunità o nella società, durante i conflitti armati.

E' fondamentale che i governi si impegnino per rendere più forti le donne, garantendo loro indipendenza economica e protezione dei diritti fondamentali. AI si rivolge a loro per chiedere che i trattati internazionali sui diritti umani vengano ratificati e attuati ovunque.

In questa battaglia per i diritti umani, sono essenziali anche la solidarietà degli uomini e il loro coinvolgimento nella campagna Mai più violenza sulle donne.
Fonte: Amnesty International Italia

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La violenza contro le donne coinvolge donne di ogni estrazione sociale. E'credenza comune che la violenza sia solo di tipo fisico, in realtà può assumere forme diverse, può essere sessuale, psicologica e perfino economica...
Di violenza si parla poco perchè spesso trova spazio all'interno della relazione di coppia, nelle famiglie che dovrebbero rappresentare luoghi "sicuri" perchè sede di rapporti basati sulla fiducia, la solidarietà e l'amore.
Le donne che subiscono violenza vivono situazioni di estrema sofferenza, per lo più provano vergogna e non di rado si convincono di essere mogli e madri inadeguate, con la conseguenza inevitabile di riportare oltre ai danni fisici una seria compromissione della loro salute mentale.
Bisogna che la società tutta si impegni ad arginare il problema della violenza, con un adeguato sostegno alle donne e alle famiglie. Le agenzie educative, parlo della Scuola di ogni ordine e grado hanno il dovere di promuovere percorsi socio culturali per l'affermazione del rispetto dell'altro. Le Istituzioni, da parte loro, dovrebbero tutelare con prontezza ed efficacia le donne che subiscono violenze.
Mi piacerebbe che le giornate come quella di oggi- che vedono tutte le donne solidali e in prima linea- rappresentassero il punto di partenza per un cammino che non si esaurisce nel tempo...

domenica 14 novembre 2010

Quando in classe leggevo Macbeth di Pietro Citati


E’ il titolo di un articolo di Citati apparso su Repubblica del 15/10/2008…accuratamente ritagliato e collocato nella cartella “ Ritagli”nella quale conservo ciò che mi riservo di rileggere un giorno, non avendone il tempo al momento.
La cartella è gonfia all’inverosimile ma quando la apro, con l’intento di operare una specie di “bonifica”accade, puntualmente, che mi areno…mi blocco dinanzi a qualcosa che cattura la mia attenzione, ecco che il “ritaglio” mi riempie di gioia e mi benedico per averlo conservato.
La bonifica- cernita- viene differita a “tempi migliori”, la cartella resta in attesa di nuovi inquilini che non mancano, vista la penuria di case in affitto a prezzi ragionevoli, temendo di certo le mie estemporanee ispezioni…

Buona lettura, con l’invito a visitare il post “Asino chi legge” sul sito di Massimo Augeri www.letteratitudine.blog.kataweb.it che all’articolo di Citati ben si collega.


Repubblica 15.10.08
In classe leggevo Macbeth
di Pietro Citati

Molto spesso provo dei sussulti di gioia ricordando gli anni, dal 1954 al 1959, nei quali insegnavo negli avviamenti professionali (medie più modeste, oggi credo scomparse). Venivo da Monaco di Baviera, dove ero lettore d´italiano all´Università, e tenevo seminari, sulle varianti del Giorno di Parini e dei Canti di Leopardi, insieme a giovani austeri, silenziosi e coltissimi, spesso più anziani di me. Alcuni di loro avevano combattuto a Berlino negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: allora erano giovanissimi, e il cranio adolescente non sopportava la durezza dell´elmo. Dopo due anni di silenzio, ritornando in Italia mi reimmersi nella bolgia della realtà. A Frascati e a Roma, avevo tre classi di quaranta studenti l´una, alle quali avrei dovuto insegnare italiano, storia e geografia. Prima bisognava, come allora si diceva, mantenere la disciplina: lo feci col soccorso di qualche schiaffo, ciò che oggi mi avrebbe procurato, da parte della magistratura italiana, la condanna a venti anni di lavori forzati.
Come dimenticare quegli anni bellissimi? Appena arrivavo nella prima avviamento, trovavo davanti a me, seduti meticolosamente sul primo banco sotto la cattedra, due fratelli gemelli.
Erano piccoli, educati, immobili, silenziosi, in apparenza attentissimi: non avrei potuto desiderare scolari migliori; eppure le mie parole (e qualsiasi parola, anche quella del Padre Eterno) attraversavano le loro orecchie, non vi lasciavano nessuna eco, e poi volavano via, verso le finestre semiaperte e l´azzurro del cielo. Non leggevano mai un libro: non ascoltavano mai le lezioni; non studiavano mai; rimanevano impassibili e indifferenti qualsiasi cosa dicessi. Minacciare la bocciatura non produceva in loro nessun trauma (come oggi si suppone): non sapevano nemmeno cosa fosse un trauma. Avevano scelto di mantenere sempre una passività silenziosa, percorrendo la scuola come due aeroliti caduti da un pianeta sconosciuto.
Il momento più bello - me lo ricordo con struggimento - era attorno alle dieci e un quarto, quindici minuti prima dell´intervallo: in ogni classe, tutti i quaranta ragazzi aprivano con un gesto assolutamente contemporaneo la cartella o il sacco. Ne estraevano un grosso brandello di carta unta, dal quale fuoriusciva un immenso panino: come dicono a Roma, una ciriola. Non avevo mai visto una ciriola così monumentale. Ognuna era aperta a metà; e conteneva una cotoletta, oppure una spessa e odorosa frittata di zucchine. Le mandibole dei ragazzi non riuscivano ad afferrare la ciriola: la smozzicavano in punta, la mordicchiavano ai lati, fino a impadronirsi del cibo desiderato da due ore. Il pasto, laboriosissimo, durava almeno quaranta minuti. Il pane, la carne, la frittata di zucchine scomparivano lentamente nel corpo quasi infantile, mentre un lieve colorito roseo ne irrorava le guance.
In classe, non volava una mosca. Niente turbava la solenne beatitudine del pasto. Era perfettamente inutile tentar di violare quel lungo momento pacifico: sabotare l´azione dei denti, della lingua, dei succhi gastrici, dello stomaco. Se ne avevo voglia, raccontavo una storia divertente. Nessuna risata: la bocca era troppo piena; solo un muto squillare di gioia negli occhi intelligenti.
***
Temo di essere stato un pessimo professore. I temi di italiano erano pieni di errori, disordinati, sgangherati, ma spesso riproducevano fedelmente la vivacità del discorso orale. Annotavo brani espressivi. Ma io ero stato paracadutato in quella scuola per insegnare l´italiano; e se il ragazzo più intelligente scriveva: «Mi´ padre lavora ar Borigrinigo», cosa potevo fare? Avrei dovuto prendere tutti gli scolari, uno per uno, portarli davanti alla lavagna, farli scrivere col gessetto, insegnando loro la giusta grafia. Era impossibile. Se avessi concesso venti minuti d´attenzione esclusiva a un solo ragazzo, la classe sarebbe esplosa in un urlo di gioia, le cerbottane, estratte dalla cartella, avrebbero lanciato frecce o pallini bagnati d´inchiostro, macchiando i visi, le orecchie, gli occhi, le mani, i grembiuli di tutti. Anch´io avrei corso seri pericoli, divorato e inghiottito insieme alle frittate di zucchine.
C´era una sola possibilità di salvezza: rinunciare alla scrittura, e leggere a perdifiato. Ricordo con orgoglio i miei successi di lettore: in prima avviamento, le meravigliose Favole italiane di Calvino e poi, via via, I promessi sposi, semplificati nella sintassi, che ottenne il successo dei grandi romanzi d´avventura. In terza avviamento, osai di più: Delitto e castigo, appena tagliato in qualche capitolo, e il Macbeth, con le diverse voci dei personaggi. Il preside aveva dubbi sui miei metodi: ma io continuavo a leggere e leggere; e la mia voce tornava a casa lievemente arrochita.
Sono persuaso che la condizione del padre, della madre, del nonno o del professore, che leggono un libro al figlio, al nipote e allo studente, sia uno dei momenti supremi della vita. I bambini e i ragazzi adorano (anche oggi) la lettura ad alta voce fatta da un adulto: la lettura giusta, compiuta con passione, colore, estro, dono di intrattenimento. I padri e le madri non amano più questa lettura, che dovrebbe occupare almeno un´ora al giorno, prima di cena. Preferiscono depositare i figli nel famoso tempo pieno (utile ai genitori, ma nocivo per i ragazzi e il loro rapporto con la famiglia): o portarli in macchina, attraverso le convulse strade della città, nelle piscine puzzolenti di cloro, o alla lezione di yoga, o ad allenarsi in palestra.