Paola - di Piera Maria Chessa Oggi il pensiero vola lontano
ai primi anni di vita
quando l’idea della morte,
ancora indefinita,
era comunque presente
nella mia mente bambina.
-Morirò oggi?- chiedevo piano
per un piccolo taglio sulla mano.
-Non c’è tempo, stasera- mi rispondevi tu,
cara tata scherzosa,
amica adulta di quegli anni lontani.
Io, fiduciosa ed appagata,
nascondevo la mia morbida mano
tra le tue screpolate,
cercando sicurezza e una certezza
che oggi so non vera.
(da Un ordinato groviglio. ed. il Filo 2008)
La poesia mi ha riportato all’infanzia, a quel mondo bambino che si affidava totalmente agli adulti nella ricerca di risposte a volte inespresse, altre più esplicite.
L’immagine mi appare di una grande tenerezza. La tata “scherzosa” impressa nel ricordo, è viva, presente, insieme alla percezione del contatto di due mani che a dispetto del tempo resteranno unite per sempre.
Mi è venuto spontaneo riflettere sulle paure dei bambini, sulle loro ansie, sull’idea che i bambini di ieri avevano della morte.
Ripenso all’infanzia, quando la morte veniva sperimentata, con il suo carico di dolore e in tutta la sua irrevocabilità, nella perdita di un animaletto caro, un gatto, un uccello, un cagnolino…allora i grandi intervenivano per consolare, lenire, cercando di far comprendere l’incomprensibile dirottando l’attenzione sulle circostanze che avevano determinato l’evento, quasi che la morte, con opportune misure, potesse essere sempre scongiurata, in qualche modo sconfitta.
Ricordo i numerosi “funerali” approntati per i nostri animali, alla fine diventavano una sorta di terapia che ci liberava dal dolore e rendeva ogni perdita più sopportabile.
Le nostre paure erano altre però: la paura del buio, dell’ignoto nascosto nell’oscura soffitta, ma soprattutto la paura di perdere, nel senso di smarrire, i genitori.
Non ci sfiorava l’idea della nostra morte, né quella dei nostri compagni di gioco, pensavamo che la morte un giorno avrebbe riguardato solo qualche vecchissimo parente…un’eventualità remota!
Ricordo il fascino che aveva per noi il corteo funebre che sfilava talvolta sotto le nostre finestre, dagli spiragli delle imposte chiuse ci colpiva la maestosità dei cavalli e il loro incedere solenne…finché non eravamo allontanati e invitati al silenzio.
Dove vanno? Perché la gente è tutta vestita di nero?
Le risposte erano sempre le stesse: il cimitero, il lutto…
La nonna ci conduceva talvolta alla tomba del nonno, il marito morto nel fiore degli anni che l’aveva lasciata vedova con quattro figli.
Ci parlava con grande serenità del suo amore perduto, ma noi capivamo che il ricordo e il dolore erano sempre vivi in lei dalla cura minuziosa con la quale spolverava la lapide annerita dal tempo, pareva quasi che l’accarezzasse…quei gesti ci commuovevano e ci facevano diventare più ciarlieri, con l’intento di distrarla, di riportarla a noi, al presente.
A scuola si parlava di vite perdute nella guerra, i “caduti” erano gloriosi soldati che si erano immolati per la Patria, per la Libertà. Come soffrirne e avvertirne l’assenza?
Oggi si parla di morte più di un tempo, se ne parla in televisione, si trasmettono immagini di guerra, di morte, distruzione, ospedali, malattie, incidenti stradali e sul lavoro…si direbbe che siamo immersi in una cupa realtà ove la vita non trova più il suo spazio.
Quando ho lasciato la scuola, non molto tempo fa, ancora i bambini non temevano la morte, avevano paura dei ladri, degli scippatori, degli stranieri, dei rapimenti, dei drogati, ma soprattutto della “ separazione” dei loro genitori.
La sensazione era che i bambini avessero paura di vivere…
Ringrazio Piera Maria Chessa per aver stimolato in me ricordi e riflessioni.